In queste ore di dolore muto, che però urla, in silenzio – e acuisce il senso di solitudine in un contesto evidentemente impregnato di conquiste effimere – per le tante, inevitabili, riflessioni che ci crescono dentro e intorno, per ogni emozione legata a pensieri di vita vissuta, o semplicemente osservata, e comunque subìta, in ogni parola sbagliata, in ogni atteggiamento abusato, in ogni condotta esercitata con il piglio della supremazia culturale maschile che si insinua con errori reiterati, con il passo della ‘normalità’, mentre il rispetto latita nell’essenza di un metodo corroso alla radice, questa nuova violenza troppo vicina ci costringe a uno scenario ancor più disperante, che sfugge in buona parte a una solidità di valori da tutti genericamente auspicata, e invece drammaticamente dispersa nella folle rincorsa di una ‘disempatia’ che fa male al cuore.
Non c’è dubbio che la morte violenta di Marisa Leo abbia scosso tutti. Che il tragico destino di questa giovane donna e mamma, professionista appassionata, voce di una Sicilia che sa esprimere il talento e l’impegno con uno sguardo sempre volto alla formazione, alla crescita, non all’improvvisazione, ci abbia colti fragili e dolenti.
Eppure c’è un dolore nuovo che si aggiunge al lutto reale, dato dalle reazioni emotive incontenibili e per questo insostenibili, non più plausibili. Viviamo in una società che a gran voce reclamiamo civile, invocando rispetto ed emancipazione culturale prima di tutto, ma non si riesce ad assistere alla capacità del silenzio vero, del sincero pensiero commosso, rivolto oltre che alle vittime, ai familiari che restano.
A una terza vittima in vita che andrebbe protetta con istinto primordiale dalla società intera anche solo con la soppressione di istinti personali che stanno cedendo il posto a una forma di protagonismo del dolore che è inaccettabile. Trionfano, dunque, nei social, le foto di Marisa, con la sua bambina in tenerissima età in braccio.
Foto prelevate dal profilo di lei, diffuse in modo spasmodico o, dopo poco, al massimo ‘camuffate’ maldestramente per rientrare nel rango dell’uso possibile. E’ un allarme enorme sotto gli occhi di tutti noi, questa incapacità sana di farsi da parte, di intervenire con esternazioni che non sono solo di inevitabile sofferenza, ma sfociano e sconfinano nell’ingiusto, in uno spazio che non ci appartiene più e di cui non dobbiamo prendere possesso.
La pietà, la consapevolezza, lo spessore valoriale, il dolore enunciati, non sono riusciti a passare da questa sfera, e a fermarsi un attimo prima. Il senso del dovere collettivo di protezione della piccola, la cui immagine è stata scagliata senza possibilità di oblio nella rete, non ha sfiorato i più, adulti e genitori compresi, colti dal raptus della manifestazione necessaria, dal dover dire la propria in preda a una commozione compulsiva e per nulla meditata che appare decisamente contraffatta, poco interiorizzata, effettivamente smisurata.
Chi ha figli, nipoti, minori che porta nel cuore, sa che la rete è prima di tutto un pericolo e che la privacy è dovuta a chi non ha possibilità di altra autotutela e di scelta. Difendere sin da subito quella bambina, il cui destino è già troppo grave, doveva essere sentimento indiscusso e condiviso. Dire, e dire tanto, come oggi si sta facendo – anche da chi invoca il silenzio altrui, salvo poi esporsi in dichiarazioni persino video, alla luce di una ‘precedenza di parola’ forse dovuta alla vicinanza amicale in vita con la vittima, oggi non incide sulla realtà, che vorremmo, ahinoi, diversa. Non incide su una famiglia affranta, che non è solo una.
Che ha l’immediato problema della quotidianità, del respiro continuo di una minore rimasta orfana e privata di un cammino legittimo di crescita e di vita; una minore che in queste ore rischia di apprendere in modo schiacciante da ogni commento esterno, per strada, al bar, in chiesa.
In ogni angolo in cui si troverà, con il diritto di un mondo che non le si può precludere all’improvviso, di essere la figlia della donna ‘ammazzata’ con tre colpi di fucile. Dal proprio padre. Quello che provo è un senso insuperabile di sconfitta, e profonda tristezza.
E di pericolo, per un modo che appare anaffettivo nel momento in cui si spoglia della sua responsabilità e pretende di assorbire e inghiottire tutto, in nome di un imprecisato diritto a dire. E’ un dolore troppo grande quello che ha invaso più di una comunità di questo territorio.
Una violenza che ha generato violenza e che non teme l’invocazione di un cambio sociale e culturale, oltre che normativo, sia per quanto riguarda gli interventi a salvaguardia di chi ha chiesto aiuto, sia in merito a un’educazione civica, relazionale, sentimentale che dovrebbe coinvolgerci tutti, dal più piccolo gesto a quello più grande, impegnandoci come cittadini liberi e democratici con un dovere di esempio in primis nei confronti del prossimo, e certamente delle giovani generazioni.
Non condivido questa spinta in avanti che al momento mi appare se non ingenua quanto meno inutile – perché dobbiamo ammettere e sappiamo che lo è – che si risolverà in sfilate, cortei, manifestazioni, murales.
In una forma di memoria che serve solo a chi la esercita oggi o nelle prossime ore, forse con la pretesa percezione di essere dalla parte giusta, e accrescere il proprio bisogno di autorassicurazione, ma che non influirà in nessun modo nella realtà, macchiata da un problema atavico la cui radice ‘morale’ è indissolubile da quello che si chiama patriarcato, e vige incontrastato tra disuguaglianze, senso di pericolo, mancata libertà intravista talvolta in forma di concessioni e un’opaca sensazione di subalternità psicologica che sottende in mille rivoli del vivere. Fermarsi, e iniziare da noi, con scrupolo e coscienza.
Solo questo oggi forse basterebbe. Per iniziare a guardarci meglio dentro ed esserci utili, essendolo agli altri.